JUVE PRIMA VOLTA - "Quando arrivai in Italia mi chiamavano Balotelli. Avevo già le pettinature e i balletti per le esultanze, ma anche i gesti tecnici e tutto quello che ne consegue. È la mia personalità, ho imparato a giocare a calcio così, per strada. In quella squadra c'era spazio per esprimerci in modo diverso".
RITORNO A MANCHESTER - “Alla fine, è stato un bene per tutti. Per Manchester, per Adidas e per me. Tutti hanno avuto i loro soldi. Non capivo. Ero un giocatore con un ruolo importante nella squadra e all'improvviso mi sono ritrovato in panchina. Non riuscivo a parlare, non c'era comunicazione. Non ero felice, e un calciatore che non è felice non può giocare bene. Sono caduto in depressione senza nemmeno rendermene conto. Perché nessuno ci insegna cos'è la depressione. Fino al momento in cui ho iniziato ad avere buchi nel cuoio capelluto. Non capivo cosa fosse. Mi è stato detto che era stress”.
A TORINO DA SQUALIFICATO - "Prendevo la palla e giocavo da solo fuori. Mi arrangiavo con quello che avevo. Ma non volevo restare a Torino. La mattina portavo i miei figli a scuola, ed era proprio accanto al campo di allenamento (della Juventus, ndr), che sofferenza”.
RINASCITA - “Queste prove mi hanno dato una determinazione in più. Mi sento come un bambino che vuole diventare un professionista. Sono tornato ad essere il piccolo Paul Pogba di Roissy-en-Brie, che lascerà il segno”.
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