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Ibra: “Sono il bodyguard del Milan: sparino su di me! Cardinale molto legato al club”

Guglielmo Cannavale
Zlatan Ibrahimovic ha rilasciato queste parole ai microfoni di GQ Italia, ecco l’intervista: “Come in campo, anche qui il gioco di squadra è la cosa più importante di tutte. È quello che ho detto a Gerry Cardinale quando ho...

Zlatan Ibrahimovic ha rilasciato queste parole ai microfoni di GQ Italia, ecco l'intervista: "Come in campo, anche qui il gioco di squadra è la cosa più importante di tutte. È quello che ho detto a Gerry Cardinale quando ho accettato di lavorare con lui. Gli ho detto chiaramente: 'Non è più un one-man show. Non vengo qui per salvare nessuno. Se pensi che sia così, lasciamo perdere subito. Io non sono qui per salvare la situazione. Sono qui per imparare dagli altri e aiutarli a dare il meglio. Imparare. Aiutare. Teamwork'".

RUOLO - "Ho detto a Gerry, sono probabilmente l’unica persona in quel sito che non è andata ad Harvard. Anzi: io vengo dalla strada. Lui si è messo a ridere. Dice che mi vuole anche per quello. È stato tutto merito di Gerry. Quando ho smesso di giocare avevo 42 anni. Mi sono detto: 'Ascolta, devi essere realista. Devi accettare che non sei più quello di prima'. Il problema più grande, il vero problema che ogni calciatore ha, è proprio questo: accettare la realtà e mettere da parte l’ego. Capire che hai superato la data di scadenza. Io l’ho fatto. L’ho accettato. E così ho trovato la mia pace. Da quel momento sono tranquillo. E quella era la parte più difficile".

RITORNO DA DIRIGENTE - "Non stavo nemmeno cercando qualcosa da fare. Nessuna sfida, niente. Mi sono detto: 'Prenditi il tuo tempo. Guarda cosa succede. Rallenta. Abituati alla nuova vita'. E dopo tre mesi sono venuto a trovare i ragazzi qui al Milan. Ho parlato con Furlani, il CEO. Gli è piaciuta la nostra chiacchierata e mi ha detto: 'Dovresti incontrare Gerry Cardinale'. Così l’ho incontrato. Abbiamo parlato. Voleva sapere di più su di me, cosa voglio, chi sono. Conoscermi meglio. Poi mi ha detto: 'Voglio che tu sia in RedBird. Non nel Milan. In RedBird. Voglio che lavori con il Milan. Porta la tua esperienza. Impara l’altro lato del calcio, quello che non vedi in campo. La finanza, i numeri, come funziona tutto'. E sono stato chiaro con Gerry: ho detto, ascolta, ho questa opportunità, e ho anche quella che mi stai offrendo tu, ma in realtà… non voglio nessuna delle due. Perché la mia vita in quel momento era bella così. Non dipendevo da nessuno. Nessun orario da seguire. Nessuna sveglia alle sette. L’unico piano che avevo erano i miei due ninja, i miei due ragazzi, ed Helena. E poi ovviamente la vita a casa, gli allenamenti. E poi, cos’è successo? È stato Gerry, come ti dicevo. Lui spinge. Spinge forte. Ora capisco perché ha successo: non molla mai. È il vero Wolf of Wall Street. Ottiene sempre quello che vuole. Alla fine, mi ha dato un’opportunità a cui non potevo dire di no. E poi anche mia moglie mi ha detto: 'Se ti conosco bene, so che dopo un po’ ti annoierai. Tu hai bisogno di una sfida. Vai, fai quello che devi fare e sii te stesso'. E lei mi conosce e bene. E no, non c’entrano i soldi. Perché io non sono pagato dal Milan, capito? Non sono un dipendente del Milan. Io lavoro per RedBird. Ma la mia responsabilità è chiara: portare l’AC Milan dove gli spetta. Vincere".

CARATTERE - "C’è chi dice: 'Zlatan è arrogante'. E poi tutto viene elaborato e amplificato. Stare attento a quello che dico fa parte del cambiamento di ruolo.  Prima ero un giocatore, rappresentavo me stesso. Ora rappresento qualcosa di molto più grande. Rappresento RedBird. E parlo con Gerry ogni giorno. Perché tanta gente dice: 'Cardinale è il proprietario, ma non è sempre qui'. Gerry ha tante altre cose a cui pensare, giusto? Lo dice spesso: 'Questo non è il mio lavoro di tutti i giorni'. Ma gli importa, e molto. È molto legato al Milan, vuole avere successo, il Milan è assolutamente centrale nei piani di RedBird. Vuole riportare il Milan dove merita di stare. A modo suo, con la sua visione, la sua ambizione. E noi seguiamo quella strada. Lui ha messo le persone giuste a gestire il Milan. E ti dà la responsabilità, ma in cambio vuole una cosa semplice: i risultati".


MENTALITÀ - "Sai come abbiamo vinto l’ultimo scudetto, quando giocavo? Con la mentalità. Perché con la giusta motivazione, con la giusta mentalità, un atleta è capace di tutto. Non eravamo la squadra più forte, ma abbiamo vinto perché eravamo più forti mentalmente. È questo che cerco di portare, sempre. È diverso, ovviamente, a Milanello e a Casa Milan, perché quando vedo un calciatore, so cosa fare per motivarlo, so chi devo abbracciare, so a chi devo fare un sorriso, so chi devo guardare male, so con chi devo fare la voce grossa. Quello spogliatoio lo conosco benissimo. Con la parte di business, è più sottile. La cosa a cui tengo di più è l’idea di unire questi due mondi, perché non c’è la squadra di là, a Milanello, e la società, qui, a Casa Milan. C’è solo una cosa, c’è solo il Milan. E io voglio unire questi mondi. È così che lavoriamo. Arriva un nuovo giocatore? Viene con me. Mi dicono: 'Ibra, sarebbe bello se Walker visitasse Casa Milan'. Io rispondo: 'Non ti preoccupare, visiterà ogni piano, e saluterà tutti. Lo farà'. E l’ha fatto. È stato incredibile. Così vede tutto il sistema: il business, il commerciale, la squadra, lo staff. Tutti insieme".

MILAN - "Alla fine, il mio ruolo non conta. Quello che conta è il Milan. Noi vogliamo che il Milan abbia successo. Tutto quello che facciamo qui, lo facciamo per il Milan. Non c’è ego, almeno per me. L’ho detto, non è un one-man show. Preferisco stare nell’ombra, non voglio nemmeno prendermi nessun merito. Credimi, ho detto ai ragazzi: 'non voglio nemmeno essere nelle foto o nei video'. Poi ho capito che devono sfruttare certe dinamiche, e questo lo rispetto. Ma fidati: se fosse per me, non mi vedresti. Lavorerei e basta. Lavoro, lavoro, lavoro. Il Milan è la stella. Non io. Io sono qui oggi, sono qui domani, ok. Ma dopodomani? Magari non ci sono più. Il Milan invece continua a esistere. E io lo faccio per il Milan, non per me. Il Milan mi ha dato felicità la prima volta. E me l’ha data anche la seconda volta. Ma non lo faccio per un interesse personale. Non ho bisogno di questo. Sono famoso, non mi servono soldi, e non mi servono nemmeno follower. Lo faccio per il Milan, e perché voglio imparare cose nuove. Quando giocavo, tutto girava intorno a me. Oggi sono il bodyguard: se devono sparare a qualcuno, che sparino a me. Io voglio proteggere squadra e società. Non mi fa paura, perché io sparo due volte indietro. Quindi posso essere io il bersaglio. Ho passato dieci anni di guerra. E se vivi una guerra nei Balcani, non è che ti chiamano per dirti come va. Sei tu che aspetti la chiamata, per sapere cosa sta succedendo. Per sapere se la tua famiglia sta bene. Ogni giorno qualcuno ti chiama piangendo, e tu non sai se domani saranno ancora vivi. E tu non puoi fare niente. Se qualcuno ha passato dieci anni così, non ha paura di nessuno. Perché quella è un’altra cosa. Quella è la vera paura. E quando i media parlano di me? Non mi tocca. Per 25 anni da calciatore mi hanno attaccato ogni giorno. Perché? Perché ero il migliore. Che parlino bene o male, se parlano di te significa che sei in cima al mondo. E qui è uguale: tutti parlano sempre del Milan. Perché? Perché siamo i più grandi".